“Questa è una storia d’amore. Alla base c’è il racconto di un papà che vorrebbe dare tutto a sua figlia. Credo sia il mio film più dolce, il più femminile”. (Matteo Garrone)
Nell’agghiacciante “Dogman”, liberamente ispirato alla vicenda del canaro della Magliana (1988), questo concentrato vivente (o agonizzante) di squallore e abbandono incornicia la parabola di un ometto che a suo modo è un artista, perso in un mondo che non sa cosa farsene della bellezza. Il minuscolo Marcello (l’inedito Marcello Fonte) infatti esercita la sua arte su cani di ogni razza che sotto le sue mani diventano sculture, facendogli perfino vincere dei premi. Accudire e tosare cani però, anche se a regola d’arte, non procura onori e denari. Neanche in quella periferia post-apocalittica. (Fabio Ferzetti)
di Alessandro Ceccarelli
Prosegue l’indagine antropologica ed esistenziale del cinema di Matteo Garrone sulle devastanti condizioni di vita dei poveri in Italia. Dopo “L’imbalsamatore” e “Gomorra” il cineasta romano si confronta con l’orrore e l’incubo metafisico dell’atroce delitto del “Canaro”. I fatti di cronaca si svolsero nel periferico quartiere della Magliana a Roma nel febbraio del 1988. Nel film di Garrone la vicenda, ampiamente modificata, si svolge nel Villaggio Coppola, frazione di Castel Volturno in provincia di Caserta. Lo squallore e il degrado assoluto ricordano molto le ambientazioni de “L’imbalsamatore” che fece di Garrone uno dei migliori registi italiani. In “Dogman” vittima (un tosatore di cani) e carnefice (un ex puglile”) sono i protagonisti in un vero e proprio incubo pasoliniano in cui gli esseri viventi più “umani” sembrano essere i cani. I personaggi che popolano questo girone dantesco sono esseri orribili e violenti “deformati” da una condizione di vita al di sotto dell’umana comprensione. Un lucido e realista capolavoro neorealista, degno erede della lezione cinematografica e letteraria di Pier Paolo Pasolini. Come tutti i suoi film l’aspetto visivo e cromatico è sempre molto curato e attento in una sorta di rappresentazione iperrealista degli eventi e delle ambientazioni. In “Dogman” l’efficace fotografia di Nicolaj Bruel e le scenografie di Dimitri Capuani raccontano e descrivono un modo o meglio un microcosmo dominato dal degrado urbano e della natura violentata dall’abusivismo. Le figure del “canaro” e dell’ex pugile dilettante sopravvivono e si muovono in un mondo “sfigurato” e abbrutito dalla povertà e dalla violenza. Straordinaria la performance di Marcello Fonte, 40 anni, calabrese, nei panni del canaro. La sua espressività e il suo umanesimo hanno colpito anche i giurati del Festival di Cannes dove ha meritatamente vinto il Premio come miglior attore. Efficace anche Edoardo Pesce perfetto e realistico nei panni nel brutale ex pugile che nella prima parte del film gioca il ruolo del carnefice. Matteo Garrone giunto al suo nono lungometraggio si conferma come uno dei più lucidi e creativi registi dell’attuale panorama italiano ed europeo. Le sue storie e il suo sguardo sono sempre originali nel descrivere mondi estremi pervasi da miseria, violenza e umanità.
La vera storia de “Er Canaro” della Magliana
Pietro De Negri, classe 1956, deve il soprannome all’attività di toelettatore di cani in via della Magliana 253, nella zona popolare della Magliana Nuova a Roma, nel quartiere Portuense. Salì alla ribalta per il brutale omicidio dell’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci nel 1988. Il fatto, il delitto del Canaro, colpì per la sua particolare efferatezza, poiché la vittima, a quanto dichiarò l’assassino, sarebbe stata torturata a lungo e mutilata a più riprese prima di essere uccisa, anche se in seguito l’autopsia smentì questa versione.
Cocainomane e pregiudicato, De Negri fu complice di Ricci in una rapina che aveva portato al suo solo arresto mentre il pugile, lontano da ogni accusa, aveva subito sperperato il bottino. Continuamente umiliato, intimidito e percosso dall’ex socio, che gli forniva la droga e gli imponeva il pagamento di tangenti a suon di minacce, il Canaro aveva subìto le prepotenze di Ricci sin quando questi gli aveva rubato uno stereo, pretendendo poi duecentomila lire per la restituzione.
Il 18 febbraio 1988 i ruoli di vittima e carnefice si invertono tragicamente. De Negri attirò Ricci nel proprio negozio con la scusa di rapinare uno spacciatore di cocaina che lì attendeva; lo convinse poi a nascondersi in una gabbia per cani, apparentemente in esecuzione del piano, ma lo chiuse dentro. A partire dalle quindici De Negri, che aveva assunto massicce dosi di cocaina, seviziò per sette ore la sua vittima. Dapprima gli incendiò il volto con benzina, quindi lo stordì con una bastonata.
Stando alla versione del De Negri, dopo aver alzato il volume dello stereo al massimo per coprire le grida, forte del fatto che si trattava d’una sua nota abitudine, estrasse il Ricci dalla gabbia e lo legò a un tavolo, amputandogli pollici e indici d’entrambe le mani con delle tronchesi. Cauterizzate le ferite bruciandole con benzina, di modo che la vittima non morisse troppo in fretta per dissanguamento, De Negri iniziò a schernire Ricci nel frattempo rinvenuto, e intorno alle 16 si concesse anche il tempo di andare a riprendere la figlia a scuola per condurla a casa da sua madre.
All’apice della tortura, sempre secondo la versione dell’omicida, mutilò l’ex pugile di naso, orecchie e, infine, della lingua e dei genitali. Poi introdusse le parti amputate nella bocca di Ricci aiutandosi con una tenaglia e provocandone la morte per asfissia. S’accanì poi sul cadavere, rompendogli i denti a martellate, infilandogli le dita recise nell’ano e negli occhi, aprendogli infine la scatola cranica per lavargli il cervello con lo shampoo per cani. Questa ricostruzione fu smentita dall’autopsia: le mutilazioni erano state inferte dopo il decesso.
Intorno alle 22, De Negri si sbarazzò del corpo. Dopo averlo legato e avvolto in un sacco di plastica, lo trasportò in auto sino alla discarica di via Belluzzo nel Portuense, dove lo cosparse di benzina e lo incendiò, preoccupandosi di lasciare intatti i polpastrelli per l’identificazione.
Il corpo di Giancarlo Ricci fu scoperto intorno alle 8 e 30 del mattino seguente da un uomo che portava il cavallo al pascolo. Sulle prime, le indagini imboccarono la pista del regolamento di conti nell’ambiente del traffico di stupefacenti. Ma la testimonianza d’un amico di Ricci, Fabio Beltrano, che aveva accompagnato il pugile in via della Magliana ed era stato allontanato da De Negri con un pretesto, portò all’arresto del “Canaro” il 21 febbraio. L’uomo confessò senza mostrare alcun pentimento.
Nel procedimento per omicidio De Negri fu sottoposto a perizia psichiatrica, e ritenuto affetto da disturbo paranoide, con incapacità d’intendere e di volere per l’intossicazione cronica da cocaina, escludendone la pericolosità sociale. Il Canaro ottenne la libertà e uscì di prigione il 12 maggio 1989, suscitando grande clamore; una settimana dopo De Negri subì una nuova cattura con internamento in una struttura psichiatrica.[6] Una nuova perizia durante il processo di primo grado, condotta dai professori Carrieri e Pazzagli, gli riconobbe un’incapacità parziale. De Negri riportò una condanna definitiva a ventiquattro anni di reclusione.
Dopo aver scontato sedici anni, De Negri fu rilasciato prima del termine del periodo della pena, anche per effetto della buona condotta e della disponibilità verso detenuti extracomunitari e malati di Aids. Libero ai primi d’ottobre 2005, tornò ad abitare con moglie e figlia, restando in affidamento ai servizi sociali e ottenendo un impiego da fattorino presso uno studio commerciale.Gli rimase l’obbligo d’osservanza di varie prescrizioni: soggiornare in casa dalle 21 alle 07, non frequentare pregiudicati, non frequentare luoghi di ritrovo, non lasciare la provincia di Roma senza autorizzazione. Appena ottenuta la liberazione rifiutò il confronto con la stampa, chiedendo d’essere dimenticato.
I VERI PROTAGONISTI DELL’ORRORE