di Roberto Ceccarelli
Robert Fripp per l’ennesima volta non si smentisce, sempre coerente con la linea dell’innovazione e del cambiamento, ma contemporaneamente fermo nel preservare il rigore compositivo, l’originalità e la cura degli arrangiamenti. La rivoluzione, cui si è accennato, riguarda soprattutto l’organico: il quartetto (Fripp, Belew, Gunn e Mastelotto) si trasforma in settetto. Gunn lascia ed al suo posto c’è il prestigioso ritorno di Tony Levin al basso, contrabbasso e Stick, mentre la chitarra di Belew è rimpiazzata da Jakko Jakszyk. Altra importante presenza è lo storico e virtuoso fiatista Mel Collins; per finire, al fianco di Pat Mastelotto, addirittura altri due batteristi. (Gavin Harrison e Bill Rieflin) L’idea di inserire tre batteristi (il secondo dei quali è anche impegnato alle tastiere) probabilmente nasce dall’esigenza di riprodurre fedelmente le complesse partiture ritmiche nelle esibizioni “live”, evitando eccessive sovraincisioni irrispettose nei riguardi del pubblico che gradisce osservare il musicista eseguire le parti presenti nelle composizioni registrate in studio.
L’approccio che Fripp e “company” hanno scelto è tipico della musica da camera in cui i musicisti si presentano come orchestrali nella loro sobrietà iconografica, rigore e tecnica sopraffina. Dopo una serie di esibizioni viene pubblicato nel 2016 il “definitivo” “Radical Action”, triplo CD che comprende la raccolta completa dei brani proposti dal vivo ed un DVD con la immagini del concerto. L’opera è monumentale, suonata e registrata in modo impeccabile; probabilmente tra i migliori album “live” della storia del Rock. La complessità delle composizioni, la sontuosità delle strutture ritmiche e gli arrangiamenti sofisticati, presuppone un ascolto attento. Molti brani appartengono agli albori del Rock progressive e tuttavia, ascoltandoli in questa opera, mantengono una stupefacente freschezza, modernità ed eleganza.
Anche le nuove composizioni appaiono molto interessanti, ben arrangiate con la solita cura delle parti ed eseguite con grande maestria e raffinatezza. Peccato che i media abbiano trascurato questo evento perché sicuramente meritava la giusta considerazione, ma purtroppo questa è una consuetudine quando si tratta di King Crimson e francamente è inaccettabile.
FORMAZIONE
Robert Fripp: chitarre, tastiere, pedaliere
Jakko Jakszyk: chitarra ritmica, flauto
Tony Levin: basso e chapman stick
Gavin Harrison: batteria
Pat Mastelotto: batteria
Bill Rieflin: batteria, tastiera
Mel Collins: sassofono e flauti.
LA CRITICA
“Radical Action (to Unseat The Hold of Monkey Mind)” è un triplo live album (3cd + 1Br e, nella Limited ed., + 2Dvd), che raccoglie le esibizioni del tour 2015, tra Regno Unito, Canada e Giappone, privilegiando lo spettacolo del 19 dicembre, allestito a Takamatsu, capoluogo della prefettura di Kagawa. Il Re Cremisi, alias Robert Fripp, chitarrista e compositore per il quale è appropriato scomodare l’aggettivo “geniale”, ha allineato musicisti e performer di grande valore, partendo dall’accostamento inconsueto di tre batteristi: Gavin Harrison (ex Incognito e Porcupine Tree), Bill Rieflin (ex Minisrty e Swans, qui episodicamente anche alle tastiere) e Pat Mastellotto (ex Mr.Mister, nel “progetto” già da “Vroom” e “Thrak”). La voce, nonché seconda chitarra, è Jakko Jakszyk (ex Level 42, qui anche al flauto). Ci sono poi il fedele bassista Tony Levin (anche allo stick, membro stabile da “Discipline”) ed il redivivo Mel Collins ai fiati (sassofoni e flauto, attivo da “In The Wake of Poseidon” a “Islands” e anche nei Camel). Fripp ed affiliati, in questa occasione, scrivono una bella pagina di storiografia. Quanto alla storia, quella l’avevano già fatta.I King Crimson, più che una band, sono infatti un modo di fare ed intendere la musica, un paradigma, un evento topico del Progressive Rock (inglese e non). Negli anni settanta, hanno oltrepassato i canoni del Rock, di sopra, di sotto e di lato, con la loro sperimentazione Jazz, Progressive ed il libero suono (con elementi di classica e avanguardia), costruendo architetture sonore maestose, granitiche, vertiginose, visionarie, pittoriche, iperreali, estraniantesi via via dall’automatismo psichico e dall’inconscio per svelare, al di là degli schemi del tempo e dello spazio, i lati misteriosi, arcani e rumorosi dell’universo. “In The Court of the Crimson King” è un album spartiacque, epocale. Lark’s Tongues In Aspic e Red sono autentici capolavori. “In The Wake of Poseidon”, “Lizard”, “Islands” e “Starless And Bible Black” sono meravigliosi nella loro poetica suggestiva e metamorfica. Negli anni ottanta si erano reiventati a lato della New Vawe, coniugando lo sperimentalismo alla melodia, con sonorità elettro-funky, intrecci di chiarra cerebrali e ricorrenti minimalismi. Il parto essenziale fu “Discipline”. Nei novanta e negli anni zero han ripreso il loro corso tra calligrafismo, tecnicismo, potenza, enfasi/abuso del loro lato hard, con minor ispirazione, ma rigore immutato. Gli album non eguagliano la bellezza e i fasti del passato. Questo concerto, in un periodo pesantemente inflazionato dalle pubblicazioni di “live cremisi”, si presenta interessante e sotto forma di “Virtual Live Studio”, ove i nostri musici sono stati immortalati nella loro esecuzione, tra perizia ed arte, in altissima fedeltà. L’esclusione successiva del pubblico, in sede di missaggio, getta nuove prospettive sulle canzoni e affida singolarmente all’ascoltatore il personale modo di esserne fruitore. Del resto, l’esperienza insegna, non può essere altrimenti: ai concerti dei Crimson si ascoltano due cose: il silenzio del mondo e loro che suonano. Emergono, una volta in più, il virtuosismo ed il perfezionismo di Fripp. La sua scienza sonora, calcolata, precisissima, non è asettica, né scevra di cuore ed anima; è maestria fuori dal tempo, certamente lontana dalla contemporaneità. Personalmente nella musica il momento creativo è quello che più mi affascina. Con Fripp, invece, esso va di pari passo con l’esecuzione. L’una è lo specchio dell’altra, senza più riconoscersi dissimili o separate. Uno specchio in movimento. Se i Beatles avevano fatto dello studio di registrazione un nuovo strumento, Fripp ha fatto del live una nuova sala di incisione. Così, a tinte forti, la geometria euclidea applicata ai suoni da Fripp e soci, manda bagliori. L’algebra musicale scandisce le note, a grappoli, distillandole in immagini ed evocando passioni essenziali. I gesti, prolungati nei suoni, non sono mai fuori posto, nei vuoti, nei pieni, nei contrasti dinamici, negli stacchi marcati tra canzone ed improvvisazione, che replica l’originale complessa partitura, in tutta la sua ricchezza di arrangiamenti e in tutta l’eleganza degli intrecci.L’ascoltatore viene condotto per mano fino a mozzargli il fiato, a commuoverlo, e fino a sentir di “sbaragliare la resistenza della mente di una scimmia”. La regalità del fare musica, la radicalità dei gesti e i cromatismi lampanti. Qui il piacere uditivo è ai massimi livelli, mistico e totalizzante. L’esecuzione è così fedele e cristallina che ad ogni accordo, ad ogni nota, “frame by frame”, ci si interroga se quello che avverrà subito dopo è esattamente quello che ci si aspetta, e si desidera. La scaletta è azzeccata per la presenza massiccia di classici dell’âge d’or, ‘69-‘74, inframezzati da vari inediti, non superflui, ma onesti e dignitosi, come i “Radical Action”, “ I” e “II”, le abbondanti sezioni di batteria, e, anche in ragione, della sparuta comparsa di pezzi relativi al ventennio 1990-2010. Peccato, invece, per l’esclusione in toto della fascia anni ottanta, “raccolta” però e “coagulata”, in qualche modo, nel nuovo brano dal titolo “Meltdown” (citazionista certo, ma affabile). Il canto di Jakko Jakszyk, da par suo, non regge il confronto con Greg Lake, nei superclassici dalla prima ora, ma nemmeno col Wetton di “Red”, mancano l’epica ed il lirismo di quello, la nonchalance ed il magnetismo di questi; pur tuttavia Jakszyk esprime al meglio se stesso, nei brani ex novo e si supera in “Peace”. La musica è splendida ed avvolgente: “Red”, “One More Red Nightmare” sono avvincenti e nodose. Vengono, poi, servite “Le lingue di allodola in gelatina” più buone del Jazz Rock, scialacquati “Soldi facili”, fino a toccare i vertici del lirismo con “Epitaph” (marziale ed epico), “Starless” (universale) e “Peace” (terreno ed interiore); infine ci coglie l’apoteosi del chitarrismo abrasivo, le dissonanze e i cambi di velocità esasperati, a 12/8, di “21st Century Schizoid Man”. Non c’è manierismo, ma il piacere di ascoltare la riedizione filologica, dal vivo, di brani impareggiabili, non scalfiti dal tempo, che attraversano la storia della musica e sono entrati a far parte delle vicissitudini personali e collettive. Nelle line introduttive, Fripp insinua, bieco, come “se il suono live non renda fedelmente il suono prodotto dagli strumenti, nemmeno la registrazione in studio possa farlo”, così l’esecuzione diventa gesto unito al suono, in una misura intensa, palpitante, indispensabile, cromatismo nutrito di lampi e di attese”.(Ondamusicale.it)
“Pensare di recensire (inteso nel senso meno nobile di fargli le pulci) un disco dei King Crimson, a pensarci bene, rischia di sembrare un atto di presunzione: chi siamo noi (direbbe qualcuno) per poter giudicare uno dei più grandi musicisti che abbiano solcato il pianeta negli ultimi cinquant’anni ? Nessuno, appunto, però allo stesso modo si ha il diritto di discuterne l’operato, sotto forma di scelte commerciali, un terreno scivoloso dove l’arte lascia spazio al marketing. Uno dei pregi della creatura inventata alla fine degli anni ’60 da Robert Fripp è sempre stata quella di non cedere in maniera spudorata alla tentazione del revival, cioè alla tanto vituperata trasformazione in cover band di sé stessi, badando a mettere in moto la macchina live per lo più solo dopo aver dato alle stampe un album di inediti, e spesso ignorando perfidamente in tale sede i brani di più vecchia data, i cosiddetti classici.
La tendenza pare esser cambiata negli ultimi anni, visto che Fripp ha messo in piedi questa strana formazione a sette, dotata di ben 3 batteristi (!), con la quale alla soglia delle sue settanta primavere se ne sta andando da un po’ in giro per il mondo a riportare il verbo crimsoniano. La band di culto per eccellenza del progressive toccherà anche il suolo italico (il biglietto per il concerto del 5 novembre a Milano è già stato accaparrato …) e sarà l’occasione per chi, come me, nonostante la non più verde età, è riuscito a vederla una sola volta in concerto, a Genova nel 2003. In quell’occasione il repertorio più datato si spingeva indietro per lo più fino ai dischi degli anni ’80, gli stessi che sono stati letteralmente “banditi” nella scelta della scaletta per questo triplo cd intitolato Radical Action (To Unseat The Hold of Monkey Mind); non è difficile immaginare che il tutto possa essere dovuto all’assenza nella line-up di Adrian Belew, estromesso da Fripp in questa sua ennesima incarnazione del re cremisi.
Non so neppure se possano esserci anche aspetti legati ai diritti dei brani composti in compartecipazione con il cantante-chitarrista americano, fatto sta che in questa uscita si passa a piè pari dalla storica produzione settantiana a quella degli anni novanta, bypassando un capolavoro come Discipline a favore di album ben più opachi.
Va detto anche che la voce “lakeiana” di Jakko Jakszyk mal si sarebbe prestata all’interpretazione di Elephant Talk piuttosto che di Frame By Frame o Thela Hun Ginjeet, pertanto prendiamoci quanto di buono (ed è molto) ha da offrire questo live, suddiviso come detto in 3 cd denominati, rispettivamente, Mainly Metal, Easy Money Shots e Crimson Classics.
Nel primo cd, che si apre e si chiude con le (magnifiche) due parti di Larks’ Tongues In Aspic, sono proposti alcuni dei brani composti dall’attuale formazione e mai confluiti su alcun disco, benché siano stati presentati più volte dal vivo: va detto che alcune di queste sono tracce davvero interessanti e di gran lunga superiori a quelle che facevano parte di A Scarcity Of Miracles, ultimo lavoro in studio attribuibile di fatto ai King Crimson, pur se uscito a nome di Jakszyk, Fripp e Collins.
Il secondo cd, come da manifestazione d’intenti, vede Easy Money quale suo fulcro, assieme ad estratti da In The Wake Of Poseidon (Peace e Pictures Of A City) ed Islands (The Letters e Sailor’s Tale) mentre il terzo è, alla fine, quello che farà maggiormente la gioia dei fan di vecchia data, contenendo, al netto dell’assolo di batteria di Devil Dogs Of Tessellation Row, solo pietre miliari della produzione crimsoniana quali Red, One More Red Nightmare, Epitaph, Starless, The Court Of The Crimson King e 21st Century Schizoid Man. Fatto l’appello e constatato che, almeno, per quanto riguarda gli anni ’70, a prima vista non si segnalerebbero particolari errori od omissioni nella compilazione della scaletta se non si scoprisse, a posteriori, che anche un disco “discreto” come Starless And Bible Black è scomparso dai radar, veniamo al modus operandi, ovvero come tali brani sono stati reinterpretati da questa formazione. Dato per certo che in sede live i King Crimson, per indole del loro creatore, non sono mai stata band da riproposizione in fotocopia dei brani rispetto alle versioni in studio, la presenza di Mel Collins in qualche modo condiziona la scelta degli arrangiamenti perché, è evidente, se hai un fior di sassofonista/flautista sul palco bisogna pure sfruttarlo. E’ per questo probabilmente che un brano metal ante litteram come Red viene appesantito da un sax che centra come i cavoli a merenda, e lo stesso succede anche in The Talking Drum; al contrario il flauto in The Court Of The Crimson King ed il sax in Starless sono elementi fondanti dei brani anche nella loro stesura originale e quindi la loro presenza si rivela essenziale per la resa finale.
Altri dubbi permangono sull’utilità del triplo batterista, all’apparenza più una bizzarria frippiana che non un’effettiva necessità, tanto più che i brani in cui tale soluzione avrebbe trovato la sua massima esaltazione sono proprio quelli dei King Crimson ottantiani; infine, l’interpretazione vocale di Jakszyk non brilla per personalità, né nei brani cantati originariamente dal suo modello Greg Lake, né soprattutto in quelli che venivano contraddistinti dalla voce ben più calda di John Wetton.
Insomma, Radical Action (To Unseat The Hold of Monkey Mind) è un comunque gradito “malloppone” in cui alle molte luci si alternano diverse ombre, ovviamente il tutto riferito non all’impeccabile esecuzione di musicisti inattaccabili su ogni fronte, ma a scelte talvolta non condivisibili, inclusa quella di incidere un live cancellando di fatto la presenza del pubblico.
A tale proposito, rispetto alla versione audio, dovrebbe risultare senza’altro più accattivante ed appetibile quella in DVD, dove invece il pubblico (forse perché si vede ..) non è stato ammutolito. Detto questo, non vedo l’ora di ascoltare dal vivo per la prima (e presumibilmente anche l’ultima) volta, una serie di canzoni che hanno segnato indelebilmente la mia adolescenza (se i ragazzini oggi sentono Andiamo a Comandare con l’i-pod ed io quarant’anni fa avevo Starless nel mangianastri, sarà il caso di chiedersi se il progresso culturale sia andato di pari passo con quello tecnologico); mi recherò al concerto con la coscienza a posto di chi spende il giusto per andare a vedere a teatro i cosiddetti “dinosauri”, senza dimenticare (mai) di supportare, spesso assieme a pochi intimi, le esibizioni di ottime band contemporanee che il 90% di quelli che saranno assisi agli Arcimboldi, invece, continueranno bellamente ad ignorare per partito preso.
(Stefano Cavanna)
Non si può dare torto a Sid Smith, biografo ufficiale della band, quando afferma che “Radical Action To Unseat The Hold Of Monkey Mind” si concretizza come l’uscita discografica più completa di questa ultima incarnazione dei King Crimson.
Dopo la pubblicazione dell’insufficiente disco ufficiale “Live at Orpheum“, del bootleg del Collector’s club “Live in Toronto” e dell’estemporaneo “Live EP 2014“, questo album contiene la ricetta idonea – tre cd pieni zeppi di musica prevalentemente antica – a placare l’elevata domanda dei fans più irriducibili.
Raccogliendo estratti dalle date effettuate nel 2015 in Canada, Regno Unito e Giappone, l’uscita discografica sarà disponibile a partire dal 3 settembre nella versione economica (3 CD + 1 Blu-Ray) e in quella limitata (2 DVD, 1 Blu-Ray e 3 CD).
A sentire Robert Fripp, “questi sono i King Crimson … re-immaginati” mentre sul sito ufficiale della band fioccano le dichiarazioni pretenziose: “i King Crimson non sono mai stati una band in senso stretto, quanto piuttosto ‘un modo di fare le cose‘.”.
Ed infatti, la novità della totale assenza dei pubblico, completamente escluso dalla fase di registrazione, fornisce un effetto “di virtuale album in studio” cosa che giustificherebbe il trend dell’attuale line-up, asseritamente indirizzato all’esibizione e non alla registrazione in studio.
A chi scrive, invece, questo esteso organico appare tronfio e gratuitamente magniloquente: la ricostituita band guarda pesantemente al passato, riproponendo – caso più unico che raro nel repertorio live crimsoniano degli ultimi 30 anni – un po’ di materiale nuovo e tanti pezzi storici, pochi recenti e molti datati, ancorché opportunamente rivisitati.
Tuttavia:
a) alcuni arrangiamenti – osannati dalla maggior parte dei “cultori” – appaiono invece discutibili, se non deprecabili;
b) il repertorio anni ’80 è praticamente ignorato;
c) la presenza di alcuni membri è talvolta superflua, se non addirittura invadente.
Per meglio spiegare, Bill Rieflin è un terzo batterista per modo di dire, essendo impiegato per buona parte del set anche alle tastiere (nel momento in cui si scrive, peraltro, si apprende della sua sostituzione con Jeremy Stacey, anch’egli impegnato nel duplice ruolo di batterista e tastierista); con tre batteristi, di cui uno chiamato Gavin Harrison (che Bill Bruford ha QUI dichiarato essere stato per lui fonte di ispirazione), è un atto criminale escludere un brano polirtmico come “Indiscipline”; Tony Levin non viene adeguatamente sfruttato, apparendo come comprimario, piuttosto che protagonista, come invece è stato in passato, in tutte le varie incarnazioni di cui ha fatto parte; la presenza di Mel Collins, infine, è certamente un valore aggiunto, ma la sua esecuzione non doveva interessare il repertorio post seventies, letteralmente demolito dai suoi interventi al sax.
Ci sono ovviamente diverse ottime cose ed è un vero piacere ascoltare grandi classici, alcuni non eseguiti dal vivo da 40 anni. In tal senso, impossibile non citare “Larks’ Tongues in Aspic Part One”, “Pictures of a City”, “The Talking Drum” e “In the Court of the Crimson King” e “21st Century Schizoid Man”, tutte meravigliose ed incredibilmente riuscite.
Ma forse, dopo due anni di concerti celebrativi e quattro live nel senso (incluso il presente), sarebbe il caso di dire basta al repertorio datato. Forse ha ragione Adrian Belew quando asserisce (QUI) che un tempo i King Crimson erano “più interessati a creare nuova musica piuttosto che a riproporre quella vecchia”. E forse, comprensibilmente, Fripp non vuole creare nuova musica perché ha scoperto che l’album in studio non frutta quanto una lunga serie di concerti basati sul repertorio classico.
Un vero peccato, invero, perchè altre cose interessanti si rinvengono proprio nei nuovi brani, neanche pochi, a dirla tutta. “The Hell Hounds of Krim”, “Radical Action I”, “Radical Action II”, “Meltdown”, “Banshee Legs Bell Hassle”, “Devil Dogs of Tessellation Row”, “Suitable Grounds for the Blues”: è qui che sta il potenziale della band, non certo nelle cover.
Diviso tra esplosioni rtmiche ed elucubrazioni tipicamente crimsoniane, in bilico tra magnetici ipnotismi e nevrosi urbane, il repertorio inedito fa sperare per un album in studio di indiscutibile livello, sempre ché il signor Fripp decida di pubblicarlo, naturalmente.
Coordinando in considerazioni di sintesi quanto fin qui esposto, più che innanzi ad una nuova strabiliante incarnazione, i King Crimson attuali si qualificano quale supergruppo che, carico di arroganti pretese di rinnovamento, ostenta l’attitudine alla mera celebrazione del passato, pur essendo meno qualificato di altri a farlo (si pensi ai 21st Century Schizoid Band).
(Gianluca Livi)