di Alessandro Ceccarelli
“Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia. Come si scopre di essere innamorati? Si è innamorati quando si comincia ad agire contro il proprio interesse”
Il 21 ottobre del 1984 a soli 52 anni, moriva uno dei più grandi e significativi registi della seconda metà del Novecento. François Truffaut, quel giorno smise di lottare contro un avversario invincibile: un tumore al cervello che non gli diede scampo. La sua ultima apparizione pubblica fu nella trasmissione tv “Apostrophe”, condotta da Bernard Pivot nel marzo del 1984. Il regista francese ha diretto capolavori come “I quattrocento colpi”, “Jules e Jim”, “Effetto notte”, “Adele H”, “L’uomo che amava le donne”, “L’Ultimo metrò” e “La signora della porta accanto”, che hanno lasciato un segno profondo e indelebile nella storia del cinema. Si tratta di pellicole che hanno raccontato l’amore, quel sentimento che aiuta gli esseri umani a vivere in un mondo pervaso da sofferenze e dolori. La vita di Truffaut è stata sempre fortemente condizionata dall’amore sfrenato per il cinema, i libri e la grande curiosità per l’universo femminile. In molti suoi film ha descritto donne fragili e ossessionate dalla passione, oppure figure femminili capaci di andare sino in fondo pur di perseguire il loro scopo (“Adele H”, “La signora della porta accanto”, “La sposa in nero”). Nel suo primo straordinario film, “I Quattrocento colpi”, ha narrato con grande coraggio la sua difficile infanzia, in un film amaro e doloroso, mentre in “Effetto Notte” ha illustrato con passione e candore il suo amore per il cinema, con un ritratto complesso e gioioso della sua professione, della sua ossessione. In “Fahrenheit 451” racconta il suo amore per i libri in un film che descrive una società futura in cui è proibito leggerli. Per ultimo citiamo il suo film migliore, quello che lo ha collocato nell’olimpo dei grandi protagonisti della settima arte: “Jules e Jim”, un vero e proprio inno alla vita, in cui con estremo coraggio e poesia il regista descrisse lo scottante tema di due uomini innamorati della stessa donna. Un film memorabile, epocale, indimenticabile. Sin dalla sua nascita, emergono le problematiche che hanno sempre caratterizzato la sua vita sentimentale e professionale: la passione e la labilità dei sentimenti.
François Truffaut nasce a Parigi, nella zona di Place Pigalle, il 6 febbraio 1932. La madre è Jeanine de Montferrand, all’epoca appena diciottenne. Il padre è Roland Truffaut, un architetto-decoratore che riconosce il figlio come suo, pur non essendone il genitore biologico. Nel 1945, leggendo il diario di Roland, il futuro regista scopre la verità anche se – per accertare la vera identità del padre naturale – dovrà aspettare la fine degli anni sessanta quando, per esigenze di realizzazione del film “Baci rubati” (1968), Truffaut contatta l’investigatore privato Albert Duchenne dell’agenzia Dubly, e ne approfitta per affidargli l’ulteriore compito di individuare il suo padre biologico. Viene così a sapere che si tratta di un dentista ebreo, divorziato, che all’epoca viveva a Belfort. Esita a lungo ma poi decide “di non allacciare i rapporti con il padre ritrovato: era davvero troppo tardi, e poi non voleva creare dei problemi al padre legale Roland Truffaut”. Questa verità lascerà un segno indelebile nella sua esistenza, nelle sue scelte di vita e nella sua visione del cinema che spesso definiva più importante della vita. Dopo il parto la madre trova un lavoro come segretaria al giornale “L’Illustration”, in cui lavora anche il nonno del futuro regista, l’ex ufficiale Jean de Monferrand. Appassionata di montagna, Jeanine frequenta il Club Alpino Francese, di cui il padre è socio onorario, e qui conosce un designer industriale, Roland Truffaut. Nel novembre 1933 i due si sposano e Roland riconosce il bambino, che però andrà a vivere con la coppia solo alcuni anni più tardi, alla morte della nonna materna. L’infanzia di Truffaut fu molto difficile, segnata dalla solitudine e soprattutto dall’assenza dell’amore materno.
Ecco un suo ricordo: “Mia madre non sopportava i rumori e m’impediva di muovermi e parlare per ore e ore. Allora io leggevo: era la sola occupazione a cui potessi dedicarmi senza disturbarla. Durante l’occupazione tedesca ho letto moltissimo e poiché stavo spesso solo, mi misi a leggere i libri degli adulti. Arrivato a tredici o quattordici anni comprai, a cinquanta centesimi al pezzo, quattrocentocinquanta volumetti grigiastri, Les Classiques Fayard, e mi misi a leggerli in ordine alfabetico, senza saltare un titolo, un volume, una pagina”. Alla passione per la lettura non corrisponde però un buon rapporto con le istituzioni scolastiche. Fino al 1941 frequenta il Lycée Rollin in cui, secondo le sue parole, si sente un estraneo. Il fallimento dell’esame di ammissione al sesto anno è l’inizio di un lungo peregrinare tra numerose scuole: “Avevo una pessima condotta, più ero punito più diventavo turbolento. A quel tempo venivo espulso molto di frequente e passavo da una scuola all’altra”. Ed è proprio in una delle numerose scuole che frequenta per brevi periodi, quella sita al numero 5 di rue Milton, che il dodicenne Truffaut conosce Robert Lachenay, di un anno e mezzo più grande. Grazie alla comune passione per la letteratura e per il cinema, tra i due nasce un’amicizia che durerà tutta la vita. Nel numero speciale che i ‘Cahiers du cinéma’ dedicheranno al regista nel dicembre 1984, Lachenay scrive: “L’incomprensione che i suoi genitori manifestavano per lui era simile a quella dei miei. Ciascuno di noi non aveva che l’altro a far le veci della famiglia. Se non ci fossimo incontrati e sostenuti a vicenda, certamente ci saremmo avviati entrambi su una brutta strada”.
I rapporti del giovane François con i suoi genitori si deteriorarono sempre di più. Il ragazzo fugge più volte da casa e si arruola nella Legione Straniera proprio per allontanarsi dall’odiata famiglia. Il critico cinematografico Andrè Bazin entra in contatto con lui, intuisce le sue grandi potenzialità e lo fa lavorare con lui nella rivista ‘Cahiers du cinéma’ nel 1949. Si può affermare che Bazin salvò la vita al giovane Truffaut che sino a quel momento era una sorta di sbandato, disadattato. Il critico aveva capito che il problema del ragazzo era la disperata mancanza dell’amore familiare. Bazin sarà per François Truffaut quell’autentica figura paterna che gli era mancata.
Sotto la sua guida il giovane Truffaut si impegna nella sua nuova professione di critico cinematografico. Celebre è la sua intervista ad Alfred Hitchcock nel 1955. Stringe una profonda amicizia con Claude Chabrol, Jacques Rivette, Eric Rohmer e Jean Luc Godard, i futuri registi della Nouvelle Vague. Nel 1956 fu assunto come assistente alla regia di Roberto Rossellini, un regista che il giovane Truffaut ha sempre profondamente stimato. L’anno successivo decise che il suo lavoro sarà quello del regista cinematografico. I suoi primi cortometraggi sono “L’età difficile” (Les Mistons) del 1957 e “Une histoire d’eau” (1958) diretto insieme all’amico Jean Luc Godard. Al suo primo lungometraggio il 27enne regista sbalordì il mondo con “Les Quatre Cents Coups” (1959). Il film ottenne il premio alla regia al 12° Festival di Cannes. Era nato un nuovo grande talento del cinema. François Truffaut era riuscito a catalizzare la sua rabbia, la sua energia, le sue frustrazioni e il suo dolore adolescenziale in un film di grande impatto emotivo e di estremo realismo descrittivo e visivo. Sino al suo ultimo film “Vivement dimanche!” del 1983 ha raccontato con profonda onestà intellettuale il mistero e l’ossessione della vita.