Musica: Keith Jarrett, il piano oltre l’infinito

“Suonare è un atto estremo, voglio trascendere

le possibilità fisiche del mio pianoforte, voglio che suoni

che una voce umana. Le note mi arrivano

come un vapore sottile, come vapore acqueo ed io

cerco di coglierne la forma prima che svaniscano nell’aria”

(Keith Jarrett)

di Alessandro Ceccarelli

Il ruolo del piano nella musica

Il pianoforte sia nella musica classica che nel jazz è considerato lo strumento principe, il mezzo ideale per creare melodie e armonie. Compositori come Chopin, Debussy, Beethoven, Mozart e Satie hanno avuto un rapporto speciale con il piano con la creazione di brani e sinfonie che hanno toccato i vertici estremi della creatività umana. Nel jazz ci sono stati grandi musicisti come Bill Evans, Herbie Hancock, Chick Corea, Duke Ellington, McCoy Tyner, Thelonius Monk, Oscar Peterson, Bud Powell che hanno contribuito in maniera decisiva all’evoluzione stilistica e compositiva dello strumento attraverso l’esaltazione dell’improvvisazione.

La meteora di Keith Jarrett

Intorno alla metà degli anni Sessanta comincia a farsi notare un giovane talento dello strumento, un ventenne natio di Allentown, Pennsylvania, di nome Keith Jarrett. Si tratta di uno straordinario e precoce talento. Iniziò a suonare il piano all’età di tre anni. Si iscrisse al prestigioso Berkley College of Music di Boston dove ottenne una borsa di studio per studiare alla cattedra di Nadia Boulanger a Parigi. Nel 1964, a 19 anni, iniziò la sua carriera professionale suonando al Village Vanguard di New York con il clarinettista Tony Scott e poi con i Jazz Messangers del batterista Art Blakey. Poi suonò nel quartetto di Charles Lloyd. La grande svolta nella carriera di Jarrett arrivò nel 1970 quando fu chiamato nel gruppo di Miles Davis. L’esperienza con il trombettista è stata molto importante per il giovane pianista per la sua maturazione umana e compositiva. Il giovane strumentista entra in contatto anche con altri due musicisti determinanti per la sua evoluzione, come il contrabbassista Charlie Haden e il batterista Paul Motian. Nel 1971 Keith Jarrett pubblica il suo primo album di solo piano, “Facing you”, un disco in cui miscela con grande abilità jazz, gospel e blues.

E’ incredibile constatare come un’opera così libera e ben concepita risulti essere stata registrata solo in tre ore da Jarrett, negli studi di Oslo della ECM, in un giorno libero concesso durante lo svolgimento della tournée europea del Miles Davis Group, di cui Jarrett faceva parte in quel periodo.  In un contesto generale ricettivo della cultura pianistica occidentale, soprattutto del tardo romanticismo e impressionismo a cavallo tra ‘800 e ‘900, Jarrett si rende protagonista di una fulminante sintesi di tutto il pianismo jazz evolutosi sino a quel momento. L’ascolto di “In front” in particolare, meglio di ogni altro brano conferma questo concetto. In poco più di dieci minuti di musica, Jarrett sintetizza, in modo molto originale, tutti gli elementi portanti della storia del piano jazz, dal ragtime al pop-rock, allora di moda, passando attraverso boogie woogie, gospel-soul, rhythm&blues e la tradizione pianistica classica europea. Jarrett riesce qui oltretutto a dar giusta forma a un così vasto e impegnativo contenuto musicale, il tutto condito con tecnica prodigiosa e tocco purissimo: un capolavoro.

Il concerto di Colonia: improvvisazione pura

Dopo una serie di album con altri musicisti, nel gennaio del 1975 Keith Jarrett si esibì all’Opera Haus di Colonia. Prima del concerto ci furono alcuni problemi: lo Steinway & Sons da lui richiesto non arrivò e la cosa creò un notevole nervosismo nel musicista che dovette suonare con un Bosendorfer. Ci si mise anche una cattiva digestione dopo la cena prima dello show. Insomma, Keith Jarrett, quella sera salì sul palco non proprio al massimo delle sue condizioni psicofisiche. Eppure fu un concerto memorabile, unico e irripetibile nella storia della musica contemporanea. Il pianista si concentrò al massimo sull’improvvisazione, arrivando a toccare i vertici espressivi e artistici mai raggiunti prima dai suoi colleghi del jazz. Come disse in seguito lo stesso Keith Jarrett, il concerto era completamente improvvisato: non aveva scritto nessuna nota, nessun accordo. E in effetti alcuni parti dello show non sono mai state scritte sul pentagramma, in quanto completamente fuori dal tempo metronomico. Quando fu pubblicato il disco ebbe un successo enorme, insolito per il jazz. Dopo tre anni, nel 1978, aveva venduto un milione e mezzo di copie. Quando, nel 1990, fu rimasterizzato in cd, le vendite arrivarono a ben cinque milioni di copie vendute in tutto il mondo. Una vera e propria opera d’arte aveva raggiunto un grande successo di pubblico.