Cinema: Spike Lee, rabbia e orgoglio nero

Una recente immagine del regista statunitense Spike Lee

 

“Ho sempre ambito, nel caso in cui avessi avuto successo, a tentare di fare un ritratto più veritiero, al negativo e al positivo, degli afroamericani. Non credo che sia necessariamente veritiero, né d’altro canto ha grossa tensione drammatica, un mondo in cui la gente è buona o cattiva al 100%”.  “Le persone di colore provano una costante frustrazione per non essere rappresentati, o essere mal rappresentati, e per il fatto che queste immagini girano il mondo.” “Io mi rifiuto di lavorare in questo mondo capitalistico e non avere il controllo della mia arte.” (Spike Lee)

di Alessandro Ceccarelli

 

Il prossimo 20 marzo compirà 60 anni, una sorta di giro di boa per un grande regista afroamericano che ha portato una notevole innovazione nel cinema americano. I suoi primi film sono stati dei veri e propri pugni allo stomaco diretti alla società americana bianca e borghese. Il cineasta di Atlanta impose il suo cinema nella seconda metà degli anni ’80 mentre nel decennio successivo raggiunse la maturità stilistica con opere quali “Malcolm X”, “Clockers” e “He got game”. Nell’ultimo decennio dopo il grande successo al botteghino con “Inside man” ha imboccato un periodo di crisi creativa e i suoi ultimi film non sono più riusciti a colpire e sorprendere gli spettatori.

Nel cinico mondo di Hollywood vige una frase che non lascia scampo ad equivoci: “Vali per l’ultimo film che hai fatto”. E il box office è un “termometro” che non perdona. L’ultimo grande successo al botteghino di Spike Lee è a tutt’oggi “Inside Man” del 2006. Dopo questo film ha collezionato una serie di flop come “Miracolo a Sant’Anna” (2008), “Red Hook summer”(2012) “Oldboy”(2013). Cosa è successo a questo grande talento della settima arte? Come mai i suoi film non riescono ad imporsi come negli anni ’80 e ’90? Spike Lee è considerato come uno dei migliori registi americani: ha diretto capolavori come “Fa’ la cosa giusta”, “La 25a ora”, “Clockers”, “Mo better blues”, “Malcom X”. Questi film lo hanno imposto come protagonista assoluto nella rilettura critica della cultura statunitense. Eppure i suoi ultimi lavori sembrano aver smarrito quella magia visiva, quell’energia creativa e quella forza emozionale che avevano caratterizzato gran parte della sua opera. Dopo il successo di “Fa’ la cosa giusta”, molti colleghi (da Martin Scorsese, Sidney Lumet a Steven Spielberg) avevano lodato il suo stile visivo e narrativo così originale. Resta da vedere se Spike Lee avrà la forza per dare una sterzata alla sua carriera per rompere questo periodo di stasi. Sembra che abbia in cantiere il sequel di “Inside man”, il suo più grande successo al botteghino.

L’infanzia e la formazione

Spike Lee è nato ad Atlanta, in Georgia, il 20 marzo 1957. Il padre, Bill Lee, è un musicista jazz, responsabile delle musiche di molti suoi film. La madre, Jacquelyn Carroll Shelton, era un’insegnante. Spike Lee ha tre fratelli (Cinqué, anch’egli attore e regista, Chris e David) e una sorella (Joie), attrice e regista. Anche il cugino Malcolm è un regista. Il nomignolo Spike (magro, ribelle) gli fu dato dalla madre, a causa del carattere ribelle del futuro regista e della sua corporatura esile ma resistente. La famiglia Lee si spostò prima a Chicago, quindi a New York, nel quartiere di Brooklyn, quando egli era molto giovane. Durante la sua infanzia, Spike Lee sognava di diventare un giocatore di baseball, ma il suo scarso talento e il fisico esile lo costrinsero a cambiare idea. Nei weekend, la madre lo portava spesso a vedere spettacoli teatrali e musical.

Per quanto riguarda gli studi, Spike Lee odiava la matematica e la scienza, mentre la letteratura inglese era la sua materia preferita. Il libro che ebbe più influenza su di lui fu l’Autobiografia di Malcolm X, letto al primo anno delle superiori. Nel 1975, Spike Lee lasciò la famiglia per frequentare il prestigioso Morehouse College di Atlanta, frequentato in maggioranza da afroamericani. Il Morehouse era uno dei più importanti college, per quanto riguarda lo studio della cultura e della storia afroamericana. In passato esso fu frequentato anche da Martin Luther King e lì si conobbero i genitori di Spike Lee. In quel periodo Lee iniziò ad acconciarsi i capelli in stile “afro”, allora in voga tra la popolazione nera. Nel settembre 1977, Lee scelse come indirizzo di laurea le Comunicazioni di massa, vale a dire cinema, radio, televisione e stampa. Si iscrisse quindi al Clark College, dove montò il cortometraggio “Last Hustle in Brooklyn”, girato quell’estate, che dura quaranta minuti e mostra le tragiche conseguenze di un black out avvenuto a New York. Lee filmò in Super 8 gli assalti ai negozi e i ballerini di strada che ballavano l’hustle, uno stile di ballo che andava di moda allora. Nel 1980 Lee diresse il corto “The Answer”, una critica fortemente negativa di “La nascita di una nazione”, di David Wark Griffith, considerato uno dei capisaldi del cinema statunitense, a causa dei suoi contenuti razzisti. «Niente in contrario se si insegna la grande tecnica cinematografica inventata da Griffith, ma non bisogna dimenticare che quel film è stato usato per il reclutamento nel Ku Klux Klan, ed è da considerarsi direttamente responsabile del linciaggio e della castrazione di migliaia di afroamericani», sostenne Lee.

La carriera cinematografica

Dopo un’interessante serie di corto e mediometraggi in cui il giovane cineasta si fa notare all’università per il suo talento visivo, Spike Lee firma il suo primo film nel 1986, scegliendo il bianco e nero per “Lola Darling”. La pellicola si impone per il nuovo linguaggio e per l’originale rappresentazione della cultura di colore afroamericana. Dirige anche un videoclip per “Tutu” di Miles Davis. Il successo internazionale arriva con “Fa’ la cosa giusta” (1989), interpretato da John Turturro e Danny Aiello. Il film partecipò al XLII Festival di Cannes, ma venne escluso dal palmarès, tra molte polemiche. In Europa il film fu accolto molto bene dalla critica, che lo definì l’unica pellicola shock del Festival. Grazie a questo film il regista guadagnò una nomination all’Oscar come miglior sceneggiatura originale, ma non vinse. Anche Danny Aiello conquistò la nomination come miglior attore non protagonista. L’opera inoltre lanciò la canzone “Fight the Power”, dei Public Enemy, facendola diventare un gran successo. Le polemiche portarono bene al film che racimolò oltre 37 milioni di dollari nel mercato americano.

Nel 1990 Lee diresse “Mo’ Better Blues”, imperniato su un musicista afroamericano interpretato da Denzel Washington, che iniziò con questo film la sua collaborazione col regista. Il film venne girato interamente a New York, in dieci settimane. In Europa fu accolto freddamente dalla critica, mentre in Italia fu presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, però senza la presenza del regista, ancora offeso per il trattamento subito a Cannes con la precedente pellicola. Costato dieci milioni di dollari, il più grande budget fino ad allora ottenuto dal regista, il film ne incassò oltre 16 e lanciò Denzel Washington come star afroamericana. L’anno seguente fu la volta di “Jungle Fever”, storia d’amore tra un uomo d’affari di colore (interpretato da Wesley Snipes) e una ragazza italoamericana dalle umili origini (Annabella Sciorra). Il film fu presentato al Festival di Cannes, dove Samuel L. Jackson vinse il premio come miglior attore non protagonista, e fu accolto da molte polemiche. Gli stessi afroamericani, per mano della Nation of Islam, criticarono il film accusandolo di denigrare la loro immagine mostrando stereotipi razzisti e sessuali. Il film ottenne un budget di 14 milioni e incassò oltre 32 suscitando reazioni contrastanti tra i critici cinematografici.

A questo punto della carriera, Spike Lee “sente” il bisogno di portare sul grande schermo il suo “eroe” di sempre, quel Malcom X che aveva così influenzato la sua vita. A livello produttivo è il film più costoso che abbia mai girato (33 milioni di dollari). “Malcom X” è una sorta di kolossal nero che ottiene un buon successo a livello internazionale. Dopo questo grande sforzo creativo e produttivo, inizia per Spike Lee un periodo di flop al botteghino. I successivi “Croolyn” (1993), lo straordinario “Clockers” (1995), con John Turturro e Harvey Keytel e lo scialbo “Girl Six” (1996) andranno malissimo sia per gli incassi che per le critiche. Con “He got game” (1998) Spike Lee torna al successo, girando un intenso film tra il mondo del basket e i conflitti tra un padre in carcere e il figlio aspirante star dello sport. Il successivo “Summer of Sam” (1999), storia di un serial killer ambientato nella New York degli anni ’70 non convince pienamente mentre “Bamboozled” (2000) originale pellicola sul mondo delle televisioni di colore è un vero e proprio flop che mette in crisi il regista Spike Lee.

Con “La 25a ora” (2002) avviene l’ennesima “rinascita artistica” di Lee. Per molti critici è il suo miglior film di sempre, quello più struggente e riflessivo. E’ la storia di un giovane spacciatore di droga che fa un bilancio della sua vita sullo sfondo di una malinconica New York ancora ferita dalla tragedia dell’11 settembre. Il successivo “Lei mi odia” (2004) è paradossalmente il film più brutto del regista. Una pellicola priva di idee, un film insignificante, stroncato dalla critica e dal botteghino. A questo punto della sua carriera Spike Lee decide di cimentarsi nel “genere” classico del cinema americano: la rapina in banca. Sarà la scelta più felice da regista. “Inside Man” (2006) è il suo più grande successo arrivando a 185 milioni di dollari di incassi in tutto il mondo. Dopo questo trionfo al botteghino per Spike Lee arrivano purtroppo solo problemi. I successivi tre film: “Miracolo a Sant’anna”, “Red Hook Summer”(2012) e “Oldboy”(2013), sono veri e proprio disastri finanziari. Anche la critica non è tenera con gli ultimi film di un regista che non è ancora riuscito a trovare quella stabilità creativa che si addice ai grandi talenti della macchina da presa.

Un’immagine di Spike Lee all’inizio della sua brillante carriera

 

FILMOGRAFIA